Posso dirtelo in tutta onestà: sono vent’anni che mi sento dire “questa è la rivoluzione definitiva” oppure “sta per scoppiare una bolla e torniamo tutti a fare i panettieri”. Ma quello che sta succedendo ora nel mondo delle startup AI è diverso. Profondamente, visceralmente diverso. Siamo in un periodo che sembra scritto da un autore di fantascienza con la penna guidata da un hedge funder di Wall Street, e chi vive dentro questa ondata – chi la respira ogni giorno – sa che la domanda non è più “se” l’AI cambierà tutto, ma “chi rimarrà in piedi quando la nebbia degli unicorni svanirà”.
Il giorno in cui l’AI ha conquistato il tavolo degli investitori
L’immagine tipica: una sala di vetro, uno di quei coworking di nuova generazione, caffè che sembra uscito da un laboratorio, sguardi febbrili. Una giovane founder con gli occhi accesi di elettricità racconta di una AI generativa capace di scrivere romanzi, scoprire cure, organizzare città intere. Gli investitori pendono dalle sue labbra, anche se a volte dietro le domande si nasconde il sospetto che tutto questo sia troppo, troppo veloce. Eppure le valutazioni schizzano: 500 milioni di dollari raccolti in un weekend, un miliardo di valutazione pre-revenue, centinaia di post su LinkedIn che gridano “rivoluzione”.
Quello che non tutti vedono, però, è la tensione che serpeggia sotto la superficie. Il mercato globale delle startup AI è salito del 270% solo nell’ultimo anno, e le piattaforme di investimento registrano afflussi di capitale mai visti nemmeno nei giorni d’oro del Web2. C’è chi parla di nuova frontiera umana, chi vede solo uno schema Ponzi camuffato da rivoluzione tech. La verità? È un mix di tutto questo, e raccontarla è come cercare di afferrare la nebbia con una pinzetta: ci provi, ti illudi, ma resta sempre qualcosa che sfugge.
Startup AI: tra unicorni, miraggi e nuove religioni
C’è una specie di religione laica che oggi permea il mondo delle startup AI. Ogni settimana nascono nuove “promesse del futuro”, team di ventenni – ma anche ex professori universitari che si reinventano founder – che annunciano il prossimo salto quantico nell’intelligenza artificiale. Ma dietro ogni pitch deck da urlo, ogni slide con la parola “disrupt”, si nasconde una domanda: “Stiamo davvero cambiando il mondo, o solo il modo di raccontarlo?”.

Prendi il caso di Anthropic, la “cugina filosofica” di OpenAI: in meno di 36 mesi, la sua valutazione è passata da “startup interessante” a “nuovo oracolo di Silicon Valley”, con investimenti multipli che hanno fatto tremare anche i più scettici. Oppure pensiamo alla corsa all’AGI, una corsa che coinvolge colossi come Google DeepMind e outsider che fino a ieri lavoravano nel garage di casa. L’hype è diventato carburante, ma come ogni carburante, può anche incendiare tutto.
Il boom degli investimenti: chi sta rischiando davvero?
Non sono solo le grandi aziende a inseguire la balena bianca dell’AI. Fondi di venture capital, family office, persino fondi pensione si sono buttati in questa corsa, spesso senza comprendere davvero le tecnologie sottostanti. Una startup AI oggi può valere più di un’intera filiera industriale tradizionale, anche se il suo unico prodotto è una demo con 10.000 utenti in beta. È successo, succede ogni giorno, e gli addetti ai lavori lo chiamano “effetto FOMO”: fear of missing out, la paura di restare fuori dalla prossima rivoluzione.
Eppure la domanda latente si fa sempre più pressante: “Quanti di questi unicorni diventeranno elefanti? E quanti invece svaniranno come le startup blockchain del 2017?”. Se guardiamo ai dati, il 2024 è stato l’anno record per le exit, ma anche per i fallimenti silenziosi. Alcuni team sono passati da valutazioni miliardarie alla chiusura in sei mesi, inghiottiti da costi di calcolo, mancanza di product-market fit o semplicemente da un cambio di direzione della narrazione globale.
Una rivoluzione guidata dai giganti (ma la vera partita si gioca altrove)
Molti pensano che la partita sia decisa dai soliti noti: Google, Microsoft, Amazon. In parte è vero. La potenza di fuoco dei big consente loro di acquisire, integrare o schiacciare quasi ogni nuova startup AI. Ma la realtà è più complessa. Spesso le vere innovazioni arrivano dalla periferia, da piccoli team che vivono ai margini dell’ecosistema e che si muovono con agilità, fuori dai radar dei “decisori” ufficiali.
Prendiamo il caso di una startup italiana che ha sviluppato un modello di AI per l’analisi medica predittiva, passata in sei mesi da una raccolta crowdfunding a una partnership internazionale. O la storia di quei team che, tra Tel Aviv e Bangalore, usano robotica emozionale e deep learning per creare nuove forme di assistenza agli anziani e ai disabili, spostando il centro dell’innovazione ben lontano dai riflettori di San Francisco.
La grande illusione della valutazione: metriche, storytelling e “doping finanziario”
Uno degli elementi più spiazzanti in questa corsa è il modo in cui si valutano le startup AI. Molto spesso, il valore non viene misurato sulla base dei ricavi effettivi, ma su metriche di crescita potenziale, quantità di dati gestiti, team tecnico e soprattutto sulla qualità dello storytelling. In molti pitch deck, la sezione “vision” vale più del piano industriale. C’è una gara non tanto a costruire prodotti, quanto a disegnare futuri possibili, con grafici che mostrano curve esponenziali pronte a “cambiare il mondo”.

Il rischio? Un “doping finanziario” dove le startup con più capacità di seduzione attraggono capitali a dismisura, spesso senza avere ancora trovato una vera sostenibilità. Questo fenomeno si è già visto in altri cicli tecnologici (chi ricorda la bolla dot-com?), ma nell’AI è ancora più marcato: qui l’immaginazione conta quasi quanto il codice.
Dati, casi e voci dal web mondiale: cosa dicono davvero gli analisti
Secondo una recente inchiesta del Financial Times, la metà delle startup AI che hanno raccolto più di 100 milioni di dollari nel 2024 non hanno ancora un modello di business chiaro. Eppure, queste stesse aziende vengono valutate come se domani potessero scalzare Google o reinventare la sanità globale. Gli analisti di McKinsey avvertono: “Non è il prodotto che fa la valutazione, ma l’aspettativa di discontinuità: gli investitori scommettono che il prossimo salto sarà così grande da cambiare il paradigma stesso del valore.”
Nel web mondiale si discute molto anche di “centralizzazione” dell’AI: il rischio che pochi player detengano la maggior parte delle infrastrutture, generando nuovi monopoli. Se da una parte questa concentrazione di potere può accelerare la ricerca e il rilascio di prodotti incredibili (vedi la sfida Grok 4 o le ultime frontiere della agentic AI), dall’altra potrebbe frenare la nascita di una vera community di innovatori indipendenti.
Quando la bolla non è una bolla (ma un acceleratore di progresso)
E qui arriviamo al punto cruciale. Chi vede solo il rischio di bolla spesso dimentica che, in ogni grande rivoluzione tecnologica, l’esuberanza irrazionale è stata anche la leva per superare le resistenze culturali e le paure collettive. Senza la “bolla delle dot-com”, non avremmo Google, Amazon, Wikipedia. Senza la follia di chi crede per davvero nei propri sogni, molte delle tecnologie che oggi diamo per scontate non sarebbero mai nate.

Nel 2025, la corsa alle startup AI ha il sapore di un nuovo Rinascimento digitale. È vero, ci sono speculazioni, valutazioni drogati, founder che promettono l’impossibile. Ma c’è anche un’energia creativa mai vista, una voglia di reinventare ogni angolo del nostro vivere – dal lavoro, alla salute, alla cultura, alla stessa idea di “umano”. E questa energia, che piaccia o no ai puristi della finanza, è il vero motore che ci sta spingendo oltre i confini del già noto.
Previsioni: la tempesta perfetta e ciò che nessuno osa dire
A questo punto entra in gioco la mia parte preferita: la previsione. E la faccio senza paura di essere smentito, come faccio da 35 anni (chi mi segue lo sa). La “bolla” delle startup AI scoppierà? Sì, ma non come la raccontano. Ci saranno crolli clamorosi, chiusure, scandali. Ma resterà una nuova razza di imprese capaci di ridefinire il concetto stesso di intelligenza, di collaborazione uomo-macchina, di progresso accelerato alimentato dalla convergenza tra AI, quantistica, bioingegneria e robotica.
Prevedo che le startup AI, nel 2030, non saranno più solo aziende, ma veri ecosistemi digitali, piattaforme in cui ogni essere umano potrà innestare le proprie competenze, esperienze, desideri. Un “mercato della mente” globale, dove l’intelligenza sarà la nuova valuta e le connessioni il capitale più prezioso. Sì, qualcuno cadrà, ma altri voleranno così in alto da riscrivere il significato stesso di successo.
Italia: spettatore o protagonista?
Voglio dirlo senza giri di parole: in Italia rischiamo di restare spettatori, anestetizzati da una narrazione mediatica che o demonizza o banalizza il fenomeno. Eppure ci sono segnali di risveglio. Nuove generazioni di imprenditori stanno nascendo ovunque: da Milano a Palermo, da Torino a Bari. Startup AI che lavorano su sostenibilità, salute, agricoltura intelligente, robotica emozionale. Piccole scintille che, se alimentate con coraggio e visione, possono diventare focolai di una nuova leadership tecnologica. Qui ci giochiamo il futuro: non possiamo più permetterci di aspettare che siano sempre altri a decidere per noi.
Come distinguere le bolle dalle vere rivoluzioni?
La domanda che resta: come faccio, io cittadino, investitore, sognatore, a capire se una startup AI vale davvero? La risposta, per quanto possa sembrare scomoda, è questa: segui le persone prima dei numeri. Osserva la qualità delle domande che si pongono, la trasparenza dei processi, la capacità di creare valore reale (non solo finanziario) per le comunità in cui operano. Le rivoluzioni vere non sono fatte di capitali, ma di visioni condivise. Se trovi una squadra che non si accontenta di “fare soldi” ma vuole cambiare anche solo un piccolo pezzo di mondo, allora sì, forse vale la pena rischiare.
Il ruolo della community: dal crowdfunding al co-sviluppo
Negli ultimi anni abbiamo visto crescere forme di finanziamento e collaborazione radicalmente nuove. Crowdfunding, equity sharing, community-driven innovation. Le startup AI più interessanti del prossimo decennio non saranno quelle che chiudono mega round con i soliti noti, ma quelle che sapranno coinvolgere davvero chi vive e usa le loro soluzioni. Perché solo una community attiva, motivata e co-autrice può garantire resilienza e crescita duratura.

L’intelligenza artificiale ha un costo: il prezzo (invisibile) del progresso
C’è un aspetto che spesso viene sottovalutato: il costo umano, ambientale, etico dello sviluppo AI. Le valutazioni miliardarie non tengono conto dei consumi energetici, dei rischi di bias, delle nuove forme di disuguaglianza che possono emergere. È qui che entra in gioco il ruolo della governance etica e della consapevolezza collettiva. Solo riconoscendo questi limiti possiamo evitare che la “rivoluzione” si trasformi in una distopia.
Chiudo con un invito personale: non lasciamoci ipnotizzare dai numeri. La vera partita si gioca sulla capacità di costruire un ecosistema aperto, accessibile, inclusivo. In cui l’AI sia davvero al servizio di tutti, non solo di chi può permettersi di investire nell’ultima moda. Qui su FuturVibe, costruiamo ogni giorno questo futuro, insieme.
Entrare nell’Associazione FuturVibe vuol dire prendere parte a questa rivoluzione, sostenerla, renderla concreta. Qui si costruisce insieme: più siamo, più il futuro prende forma.
Fonti: Financial Times (business e innovazione), McKinsey (trend tecnologici globali), Reuters (mercato e investimenti), MIT Technology Review (AI e società), OpenAI (ricerca su AI avanzata), OCSE (policy e futuro del lavoro).



